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Se vi fa piacere potete, intanto, immergervi subito nella lettura di due brevi storie.

Notte bianca

di Stefano Corsi

“Buonasera” esclamò voltandosi.
La commessa accolse con un sorriso le due ragazze appena entrate.
Era una notte bianca. I negozi sarebbero rimasti aperti fino al mattino e il suo turno era appena iniziato.
Le insegne proiettavano forme multicolore sui marciapiedi gremiti di gente. In genere a quell’ora le strade della città erano deserte, ma in quella notte bianca cambiava tutto. L’atmosfera, di solito immobile, era frizzante e gli infiniti gruppi di persone entravano ed uscivano dai locali con fare frenetico. Il freddo notturno creava nuvole di vapore intorno alle bocche sorridenti e ai nasi arrossati dei passanti.
“Posso fare qualcosa per voi?” aggiunse in direzione della coppia.
Le due giovani clienti sembravano liete di trovare ristoro nel tepore del locale.
“Diamo uno sguardo” rispose una delle due.
Più che amiche sembravano principessa e dama di compagnia.
“Bea, l’hai riconosciuta?” bisbigliò una delle due.
Aveva lucenti capelli biondi ed era firmata da capo a piedi.
“No Ali, chi è?” rispose l’altra, alta castana e decisamente più sobria.
“E’ quella insopportabile che faceva la quinta con noi.”
“Ma chi?”
“Dai!!! La reginetta della scuola. Miss So tutto io, coi voti migliori, sempre curatissima, pettinatissima, puntualissima, fidanzata col più bello della scuola. Guardala adesso la sciattona…”
“Ahhh, ora ho capito! Che le è successo?”
“Pare che il padre abbia fatto bancarotta”
“Davvero!?!”
“Sì, la madre lo ha lasciato per la vergogna!”
“Ma dai…”
“Neanche all’università è potuta andare. Quei quattro spiccioli che si guadagna le bastano appena per sopravvivere. Ben le sta! Non la sopportavo prima e non la sopporto adesso, questa morta di fame!”
“Dai, però, non essere così cattiva. Deve averne passate un sacco. A me sembra carina adesso e poi che vuol dire morta di fame? La gente non si giudica dallo stipendio! E poi non mettere tutto in disordine, non lo sopporto! Se prendi un capo, rimettilo come lo hai trovato.”
Il suono acuto di un’ambulanza troncò sul nascere la discussione che di lì a poco sarebbe esplosa.
Alice prese per mano l’amica e la trascinò fuori dal locale senza degnare di un saluto la commessa.
“Vieni, vediamo che succede!”
Una gran folla era illuminata ad intermittenza dalle luci rosse e blu.
A spintoni si fece largo tra la folla lasciando indietro Beatrice.
Riemerse dopo cinque minuti con aria delusa.
“E’ solo una vecchia cicciona che si è rotta una gamba. Si è caricata due buste piene di gelato, non ha retto il peso ed è caduta. L’ingorda!”
“Sei incredibile, come fai a dire certe cose con tale disinvoltura!?”
“E’ un dono di natura! Senti, questi discorsi mi deprimono. Voglio tornare a casa, dai che ti do uno strappo.”
“No, grazie. Vado a piedi.”
“Ma casa tua è lontanissima!”
“Tranquilla, mi arrangio.”
“Come vuoi, ciao.” disse Alice agitando stizzita la mano.
“Ciao, a domani.”
Beatrice si incamminò lentamente per la strada di casa, ma appena fu sicura di non essere vista scartò a destra ed accelerò il passo. Proseguì per un centinaio di metri e, infine, si infilò nel punto vendita di una famosa casa di moda.
“Ciao, perdona il ritardo” si scusò con il ragazzo dai capelli rossi e il viso lentigginoso seduto dietro un grande bancone.
“Di niente, figurati. Come vedi non c’è nessuno. Io stacco. Buon lavoro.” rispose con aria stanca il ragazzo che prese la giacca e fece per uscire.
“Grazie. Tu riposati!” gli fece l’occhiolino e lo salutò con un inchino.
Rimasta sola indossò la divisa e sistemò sul petto il cartellino con inciso Beatrice.
“Ecco, la commessa è pronta” ironizzò raccogliendo i capelli castani e ben puliti in una coda di cavallo.
Cominciò a sistemare gli scaffali messi in disordine dai clienti: proprio non sopportava il disordine, ne tanto meno quella gente che metteva tutto sottosopra vanificando i risultati del complesso sistema organizzativo dietro uno spazio ben ordinato.
Così facendo entrò in quel particolare stato d’animo in cui ci si ritrova quando, svolgendo un compito conosciuto e ripetitivo, la mente comincia a vagare per conto proprio.
“Mi chiedo perché continuo a frequentarla” si disse.
“E’ perfida ed invidiosa. Sicuramente ben vestita, ma comunque perfida ed invidiosa.
Davvero ho bisogno della sua approvazione? Sono proprio ipocrita. Parlo tanto di bellezza interiore e puntualmente cedo alle tentazioni dell’estetica, puntualmente mi avvicino a persone il cui status sociale è di due gradini superiore al mio. E, puntualmente, l’apparenza prende il sopravvento sull’essenza. Anche per fare la commessa mi sono andata a scegliere il negozio di marca.
Cosa vuol dire status sociale, poi… quante volte devo ripetermi che ricco non vuol dire migliore?
Sa che sono meno ricca di lei e per questo è disposta a frequentarmi, ma se sapesse che devo addirittura lavorare per vivere credo davvero che continuerebbe…”
Il campanellino appeso all’ingresso tintinnò nel momento in cui la porta si aprì, interrompendo il torrente in piena dei suoi pensieri ed annunciando l’arrivo di nuovi clienti.
Finalmente qualcuno a movimentare quel turno che, altrimenti, sarebbe stato lungo e noioso. Con un po’ di fortuna avrebbe scambiato quattro chiacchiere, dato consigli sugli acquisti, piazzato una buona vendita e irrimediabilmente rimesso a posto i vestiti scartati abbandonati sul bancone. “Buonasera” esclamò voltandosi.

 

Marta

Breve racconto sulla follia dell’apparire

di Stefano Corsi

Marta odiava il suo nome tanto quanto amava il suo aspetto fisico.
Curare il proprio corpo ed essere fedele allo stile che la moda le imponeva; questi i suoi comandamenti, la sua missione da perseguire in maniera maniacale.
E la cosa che adorava più fare era disegnare l’arcata perfetta delle sue sopracciglia.
Calcolare fuoco e vertice delle sottili parabole che le sovrastavano gli occhi era una sfida risolvibile con tale naturalezza tanto da poterle valere tranquillamente una laurea onoris causa in matematica.
Ogni pelo strappato era per lei una soddisfazione, una piccola vittoria personale.
Quel sabato sera, come tanti sabato sera della sua vita, estrasse le pinzette dal cassetto del bagno e le mise a disinfettare in un contenitore riempito per metà di alcool. Si lavò il viso con il sapone per seccare un po’ la pelle. Questo era un passaggio fondamentale per effettuare una depilazione accurata, avrebbe pensato poi a reidratarsi con l’opportuna crema a base di olio di oliva.
Prese un asciugamano, tamponò con cura la faccia e finalmente fù pronta.
Squadrò la sua immagine riflessa nello specchio, impugnò le pinzette, strinse gli occhi per aggiustare la messa a fuoco e con decisione estirpò il primo dei due peli che le erano cresciuti proprio sopra l’attaccatura del naso. Afferrò il secondo, ma si distrasse, e questo invece di strapparsi si spezzò. Quel piccolo punto nero costituito dalla radice del sopracciglio sembrò a Marta un enorme e disgustoso neo che infettava la sua pelle di porcellana.
Con la punta delle pinzette provò ad afferrare quella radice, ma non riuscì. Riprovò. Niente. Cominciò a scavare, scavare e ancora scavare con rabbia e frustrazione crescenti. Brandelli della sua carne venivano via, ma non quel pelo. Arrivò al cranio, neanche si rese conto di cadere a terra esanime. Con la fronte sfregiata e il sopracciglio ancora ben saldo al suo posto.

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